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Il dialetto di Sassari è nato a Sorso ?

UN’IPOTESI EMERSA DALLA LETTURA DEI DOCUMENTI DEI MAESTRI FERRAI:

Io, certe volte, non sono un uomo coraggioso, lo confesso. Ho tutti i numeri per dire il contrario: la mia nascita e l’educazione a Nuoro, la vita un po’ spericolata, le mie strane scelte, in tutti i campi; ma non sono un uomo coraggioso.

Da dieci anni ho un problema che mi cruccia, e che si presenta lucidissimo nella mia mente, con tanto di documenti: secolo, anno, giorno, e soprattutto la firma, a chiare lettere, di un testimone o di un notaio. Ma non ho mai avuto una tal carica di coraggio per dire le cose che pensavo.

Da dieci anni a questa parte ho cominciato a nutrire il sospetto che il dialetto sassarese, contrariamente a quanto è stalo detto dai più insigni cultori della materia, da Wagner, Bottiglioni, Tomaso Napoli, Meyer Lubke, fino a L. Bonaparte, Mallzan, Sauna, Guarnero, Spano, Angius, Tola, non è nato all’interno della città di Sassari, attorno alle mura del Castello, o dentro il perimetro della città “storica”.

Il dialetto dì Sassari è nato altrove, forse neppure molto lontano, ma non è nato in città. Questo sospetto, un pò provocante e così ardito, io ho cominciato a nutrirlo leggendo una serie di documenti stesi dalla mano dei maestri ferrai di Sassari, riuniti sono l’invocazione di sant’Alò.

I documenti me li ha forniti un giorno il signor Costantino Noce; li aveva trovati nel cantuccio di una bottega di fabbro e li custodiva con cura, per la sua devozione al gremio, di cui è uno degli ultimi superstiti.

Un giorno mi ha detto: “Guardi, Enzo Espa, che cosa ho trovato!”.

 

I DOCUMENTI

Io ho cominciato a sfogliare tra quelle carte, tutti i i giorni, e studiavo le pagine che spesso si frantumavano per l’umidità, e restavano tanti piccoli coriandoli ingialliti dal tempo. Leggevo con attenzione, prendendo appunti, trascrivendo i documenti e i testi che mi sembravano importanti.

E così ho cominciato a mettermi in confidenza con tutti quei fatti e con quei protagonisti, con la sensazione che non tornassi indietro nel tempo lontano, ma che quegli uomini io li avessi veramente conosciuti, al tempo della mia infanzia; e che fossi entrato nelle loro botteghe per vederli lavorare in quell’arte di cui erano insigni maestri.

De Hays, Cesarachio, Baranguer, Pittalis, Solinas, Porcu, Castiglia, Pasca, Candioto, Pois, Mura, Detory, Diana, Florenzana, Ventura, Villino, Oddo, De Novella, Fatachio, Rustarello, Manunta, Pasquali, Ruys, Manganaro, Quasina…: nomi presenti in tutti i secoli, per quella devozione al mestiere, che voleva che i figli seguissero sempre l’arte dei padri. I documenti sono scritti da lavoranti di indubitabile, modesta estrazione; fabbri ferrai, ramai, stagnini, magnani, balestrieri, orafi ecc. Stendendo i documenti della loro Confraternita, e se si vuole del loro gremio, questi umili maestri dell’arte di sant’Eligio, nel 1500, nel 1600. e anche nel 1700, non hanno mai usato, per dare conto del bilancio della loro maestranza, una sola parola del dialetto sassarese, come sarebbe stato doveroso. La loro lingua è sempre la lingua logudorese: una lingua assai simile a quella che oggi si parla ad Ossi, a Ploaghe, ad Uri o ad Ittiri, anche se, talvolta, la grafia viene stabilita in certe forme spagnoleggianti.

Questa constatazione mi ha condotto allora a pensare che anche l’autorità municipale, e quella religiosa, quando si è trattato di comunicare in forma diretta e immediata col popolo sassarese, hanno sempre usato la lingua del Logudoro.

STATUTI SASSARESI

II Codice degli statuti sassaresi, all’inizio del 1300, è stato tradotto dal latino in lingua logudorese, perché il popolo potesse capirlo meglio.

Le Ordinanze cittadine del 1400,1500 e 1600, qualunque materia contenessero, sono sempre pubblicate in lingua logudorese, anche se dirette esclusivamente alla città e al popolo di Sassari. E altrettanto dicasi per le Grida. Consultate, se volete, il bel libro di Ginevra Zanetti sulla vita delle maestranze sassaresi del 1400 e 1500. E la Chiesa che lingua usava? Tutti gli atti che emetteva per comunicare col popolo, o all’interno della città, o nella diocesi, erano sempre trascritti in Ialino o in logudorese.

Ma non mi ha colpito tanto come scrivevano o comunicavano l’autorità civile e religiosa; mi ha colpito quella tal mania di scrivere nella lingua logudorese degli associati alla confraternita di sant’Alò: gente umile, priva di molta cultura, e che certo non disponeva di tante lingue o di più dialetti. Stendendo i documenti di confraternita, che avevano valore solo ad uso interno del gruppo, era agevole e necessario che disponessero della lingua parlata. E se i maestri ferrai di Sassari hanno compilato i registri del gremio utilizzando la lingua logudorese, è evidente che quella era proprio la loro lingua.

Diversamente perché lo facevano? Per creare fastidi, molti secoli dopo, al Wagner, al Guarnierio e a tutti gli altri? Gli studiosi hanno detto che il dialetto sassarese è una lingua logudorese fortemente italianizzata; o anche che il dialetto sassarese è una lingua italiana fortemente logudoresizzata.

E cosi si sono messi in regola. Il dialetto sassarese sarebbe nato in città per le influenze linguistiche di dominatori pisani e genovesi, e il popolo avrebbe man mano abbandonato la sua lingua, quella del logudoro, per assumere le forme di una cultura “altra”. Io a tutte queste cose ho cominciato a non credere da dieci anni a questa parte, anche se non ho avuto il coraggio dì dirlo. E avevo tutte le mie buone ragioni e i sospetti.

E mi documento, trascrivendo alcuni atti dei maestri ferrai di Sassari, tratti dalle carte del Fondo Noce.

“Jesus et Maria in Tatarj a 26 de genargiu de 1570. In Dei nominj amen eo Rafaelle de Limontj baljsterj, fato una missa narrar dogna qujda zoest su jogia jn sa capella de Santu Alo in sa nostra confraria de sa nostra arte et po cantu apo a como eser vivu jn custu mundu hapo como pagare a raxione de otto ljras s’anu bator ljras su die de S.Alo de lampadas et su restu aj como unu annu ut subra et custu de fato curadores et manjmasores a sos oberajos qui la fetan narrer dogna qujda sa jogia et custa l’ana a narrer sos prejderos fìgìos de fraus e sos pius propincos segundu sos cabidolos nostros et custa est sa ultjma vuluntade mja et quj do podere quj mj potana sucutare sos dìtos oberaios de dita santidade dogna annu et po quj est sa verjdade de fato su presente atu de manu mia propria jn su liberu de santu Allo hoe in Tatarj a 26 de bennargiu de 1570 Eo Rafaelle de Ljmontj baljsterj manu propria”.

Gavino Casarazo, notaio, sottoscrivendo un documento del 2 settembre del 1601 dichiara: “…sa causa prò qui son istados factos congregare etajuntare este qui sa capella et congregacione nostra at et possedet unu censale de propriedade de quentu liras…” Il 4 di gennaio del 1602 a Sassari, i maestri dell’arte stendono un documento in cui è detto: “In nomen de nostru sennore deu hic ajuntados et congregados jn sa ecclesia de su gloriosu santu Elegui constructu foras et aprobe sas murallas de sa presente ciìtade…”.

Nello stesso 1602, il 16 di gennaio, tutti i maestri dell’arte stendono un documento del tenore: “Sa causa prite san jstados congregados est pro qui happo trattadu su qui sos dies passados istettit determinadu sanairer jn sa capella de su gloriosu santu Eligui quale est de sa confraria nostra… “, Silvestru Capuxeddu, il 25 novembre del 1619, dando conto della sua attività di obriere, dichiara in registro: “…hapo rezevi du dae Baingiu Musina oberaiu fuit in annu passadu noranta sette liras undighi soddos et bator dinaris…”. Nel 1621 mastru Austini Ays, obriere, prende i conti da J. A. Grimaìdi “…de totu su carrigu bene et legalmente cun sos discarrigos qui legittimamente at dadu…”. missa de pius de sas qui si costumat

L’archibugiere

Nel 1631, 13 di luglio tre maestri esaminano un allievo per il riconoscimento di abilitazione all’arte, onde poter “levar tienda”, cioè aprir bottega. “Felippu Zenoardu, genoese pro de archibuseri et tanchaduras aprobadu pro tanchaduras dae mastru Baingiu de sa Musina et pro archibusos dae mastru Giuanne Maria Leone…”.

Nel 1647, il 25 luglio, si affidano al maestro J. F. Aisone “… tres libros, duos de tibia qui sunt sos actos de sos sensales et s’ateru de sos capitulos et tres bergaminos de indulgensias pius ses tiagias pius battor anguelos qui servint pro su altare…”.

Anche il 5 luglio del 1654 mastru Raffaele Massone consegna “… sa cantidade de degue sete liras de dinaris segundu istat expressadu in sa diffinisione sua…”.

In documento dell’11 giugno 1675 (voi. III F.N.) si legge: “… qui pro cantu sa ditta Capella de su gloriosu Santu Alò si agatat meda povera et necessitada pro causa qui dogni terza non si pagat si non vinti soddos per ogni mastru cui venit a esser baranta soddos su annu et pro ditta causa de non pagare si non baranta soddos su annu venit faltare sa celebrassione de sa m’issa quotidiana qui dogni die si accostumat narrer in ditta Capella de Santu Alò constructa in sa primaciale eclesia metropolitana turritana de Santu Nigola…”.

Il 30 agosto 1694 i maestri ferrai riuniti nel convento di san Agostino stendono un atto di contabilità del seguente tenore: “Havendesi congregadu totu sa maiore parte de sa maestranza de frailargios in su oratoriu de su conventu de santu Austinu extra muros de custa cittade a fine et efetu de leare contos de carrigu et discarrigu a mastru Juanne Pedru Coasina oberaiu maggiore fuit su annu passadu de su gloriosu santu Elogi su quale at dadu bonu et leale contu ditu Coasina hoe in Tatari a trenta de austu de 1696. Proptu Tolu teste”.

Rosello e Billellara

Questi documenti io li ho esaminati, studiati, trascritti dieci anni fa, quando avevo intuito che c’erano molte cose nuove da dire circa il dialetto parlato a Sassari e nella vicina incontrada di Romangia. Ma non potevo dire bruscamente agli amici sassaresi: “Voi parlate un dialetto che non è il vostro, un dialetto che avete preso in prestito da qualche paese “di fuori”. E tanto meno potevo dire, per quel tal rapporto che si è definito nei secoli tra quelli di Rosello e quelli della Billellara:”Ohè, il dialetto sassarese ve lo hanno portato da Sorso o dalle campagne, tanti anni fa, magari in una di quelle circostanze in cui Sassari sì e spopolata di molta della sua gente, per una carestia o per una peste, come spesso è accaduto. E perciò i sassaresi sono dovuti ricorrere proprio a quelli di Sorso, per coltivare le campagne e per tutti gli altri lavori. E i sorsesi, oltre che le loro braccia e il loro lavoro, per fare un dispetto a quelli di Sassari, hanno anche portato la loro lingua”.E in qualunque forma o modo, anche garbato, voi doveste dire queste cose, trovate sempre uno che si offende, senza neppure avere il gusto di dire: “Fammeli vedere, per favore questi documenti che ti ha dato il signor Costantino Noce, in cui si dice che i maestri ferrai di Sassari nel Cinquecento, nel Seicento e nel Settecento scrivevano nella lingua del Logudoro!”.

E perciò, da dieci anni a questa parte, nonostante i miei giusti sospetti, io queste cose non le ho mai dette. Anche perché mia moglie, nata da padre sorsese, aveva comincialo a gongolare, quando io le avevo accennato alla questione. E perciò queste cose non le ho mai volute scrivere prima, proprio per non darle una soddisfazione cosi palese.

Sassari e Sorso

Ne ho parlato un giorno anche all’avvocato Ugo Puggioni e a Francesco Tanda, entrambi con certificato anagrafico rilasciato a Sorso, tanti anni fa. Mi hanno detto che il mio discorso andava benissimo, e che le mie ipotesi non erano proprio ipotesi, ma la “giusta verità”.Ma certamente lo facevano per spirito di parte. Il dialetto di Sassari è nato a Sorso o nelle campagne, e di qui è entrato bell’e fatto nella città! Lo so: oggi mi guadagno la possibilità di avere un ricordo marmoreo a Sorso. Forse anche una statua equestre, data la eccezionalità della notizia. O almeno una epigrafe in una delle vie nuove della periferia, in regione di Maccia di Lari. Ma a Sassari? A Sassari non potrò più uscire in istrada né di notte né di giorno. E tanto meno potrò affacciarmi a Porta Utzeri o dalle parti di San Sisto, per non essere indicato a dito…

Enzo Espa

 



Pubblicato su La Nuova Sardegna il 1977


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