Home Page   |   Biografia   |    I Libri   |    Stampa   |    Pensieri in libertà   |    I Racconti   |    Album   |    Altri Scritti   |    Contatti


IL 1648 a Sassari: l'anno della grande paura

   SI SOTTOPOSERO AD ATROCI SUPPLIZI PER ALLONTANARE LA PESTE E LA GUERRA

Nella primavera del 1648 si diffuse in città il timore superstizioso di oscure catastrofi. A determinarlo avevano forse contribuito le ingiunzioni dei vescovi e le maledizioni che l’autorità ecclesiastica lanciava contro chi si fosse rifiutato di pagare le decime. I sassaresi vivevano nell’attesa della vendetta divina. Si videro allora per le strade lugubri cortei di persone che si flagellavano e si ferivano per versare il sangue sulla terra. Finché si sperò di poter ottenere il perdono divino con una processione fino alla chiesa di Balai. Il malizioso intervento del demonio che tentò di spargere il panico tra la folla. Dei mesi del terrore resta una singolare testimonianza in un poemetto in lingua spagnola. La grande peste sarebbe venuta più tardi, nel 1652. L’immagine di una società commista di superstizione e di paura.

 

 

La primavera del 1648 non si aprì sotto segno fausto per i sassaresi. Un diffuso senso di scoraggiamento e di paura aveva occupato gli animi della povera gente, senza che tuttavia ci fossero segni manifesti e palesi da poter giustificare il fatto.

Certo, l’annata era scarsa e le piogge limitate, specie se si pensa alla natura dei terreni argillosi delle contrade e alla scarsità delle sorgenti, che in città si riducevano a quattro, per cui era necessario rifornirsi alle fonti delle campagne e dei paesi vicini.

Un quadro preciso ed efficace di questo scoramento noi lo ricaviamo dalla lettura di un lungo poemetto in ottave del padre Antonio Sortes, un nativo della città che verseggia in lingua spagnola, non solo perché è lingua paterna, ma perché quella era allora la lingua ufficiale dei dotti e degli uomini politici. Il poema ha per titolo: “Verdadera relación de las cosas meravillosas que sucedieron en la Ilustre y Noble Ciudad de Sacer en el año 1648 que nos dice la sequela, esterilidad y hambre que se padeció y se temió el año venidero, y las procesiones, penitencias y mortificaciones que se hicieron para aplacar la ira de Dios Nuestro Señor, y como se alcanzó la gracia de tener la lluvia en abundancia”.

Noi lo leggiamo nel testo di A.Marcellino (Sassari, Gallizzi, 1946) che non potendo disporre dell’originale ne ha trascritto la copia rinvenuta nelle carte manoscritte di A.Sisco.

Il Sortes ci parla della paura della peste, siccità, carestia e guerra che si era inculcata nell’animo dei sassaresi non si sa bene per quale precisa causa che non fosse quella della siccità; ma era evidente che il popolo era convinto che il tutto fosse motivato dal cruccio della divinità per la scarsa fede degli uomini.

I documenti storici ci parlano della grave carestia scoppiata in Sardegna nel 1647, causata dalle cavallette giunte a noi dai territori della vicina Africa, che avevano divorato quell’anno tutte le messi e che negli anni successivi aveva impegnato l’intera popolazione per distruggere i focolai di infestione e scongiurare così il ripetersi del flagello.

Certamente le popolazioni avevano allora un intuito particolare nell’avvertire segni, anche labili, che potevano far presagire calamità e sciagure collettive; ne fa fede il fatto che la peste paventata nel 1648 esploderà terribile solo a scadenza di pochi anni, nel 1652, l’anno del rinnovo del voto dei sassaresi.

La Chiesa, sia per l’azione dell’autorità vescovile, sia per l’apostolato del clero in cura d’anime, era solita trattare col popolo nello spirito delle ingiunzioni sinodali che venivano pubblicizzate sia nella diffusione dei testi, sia in avvertimenti, prediche, omelie in ricorrenza delle maggiori festività liturgiche, e che comminavano la scomunica e minacciavano sanzioni umane e divine verso tutti coloro che si fossero resi responsabili di trasgressioni e di deviazioni, di abusi e di inadempienze di qualsiasi genere. Basti pensare che i capitoli del sinodo dell’arcivescovo Pasamar (1625), relativi al conferimento delle decime sacramentali avvertono che coloro che si fossero sottratti alla consegna dei frutti della terra sarebbero incorsi in due maledizioni, cioè “in perdimentu de anima et in perdimentu de roba, segundu chi dogni die peri su experiensia lu toccamus cum sasa manos. Et essende chi alguos pro no pagare sas desuma morin de morte repentina et sensa Sacramentos, atteros chi perden sos figios morin deshondradas; atteros chi semenan et non messan, piantan vinaia, et non bonin de sos frutos; atteros chi venin a tanta miseria et povertade non tenen benes chi chionpan a su valore de sa deguma chi han fraudadu”.

Si vuole documentare analiticamente questa pagina sinodale perché in   essa si rispecchia lo spirito del poemetto del Sortes perché si intuisca come le popolazioni avevano sensibilizzato i disposti della Chiesa.

Anzi alcuni di questi finiranno per tradursi in forma proverbiale, come quel passo dello stesso Passamar che suona: “Queret Deu chi su chi lean e Jesu Christu si les mandighet su Fiscu de su giustissia temporale” e che rimane ancora nella letteratura orale del popolo sardo nella forma: “Chie non dat a Christo dat a tristos” (Chi non dà a Cristo dà ai tristi).

Il capitolo del sinodo Passamar così conclude:

Et pro custu peccadu, Deus mandat malas annadas, infirmidades, mortalidade de personas et de bestiamen, isterilidades de sa terra, unas voltas con penuria, atteras cun troppu abundansia de abba, cun influensia de tilibriche, de rugas, de neula et de ateras manera, cun sas cuales non ischit castigare »

E queste ammonizioni vengono notificate nella forma più convincente, con letture nella lingua del luogo, la logudorese, e sempre in coincidenza con le maggiori solennità liturgiche, perché più efficace ne seguisse  l’osservanza. In più i sardi erano perseguiti da diverse parti per tutta quella serie di riti e di tradizioni che erano segno della scarsa fede nella divinità, tradizioni che spesso non si trovavano in concordanza con le forme di vita e di culto prescritte dall’ortodossia cattolica

Il poemetto del Sortes testimonia come il clero sassarese facesse sua la convinzione che le maledizioni del signore erano da collegare alla scarsa devozione delle popolazioni, all’incuria della gente verso i riti, alla riottosità del popolo nel sopperire ai bisogni materiali della Chiesa, ed anche all’intervento delle forze diaboliche che insidiavano costantemente l’uomo.

La divinità crucciata, mentre si manifestano i segni minacciosi della luna e del cielo, vuole che gli uomini traggano vantaggio proprio dal peccato, e li induce ad una forma più sincera di pentimento (y amenazando un mal su providencia/hacer que salga  a luz la penitencia).

In questo drammatico quadro di paure e di miserie, con la terra che cominciava  a patire siccità (gemía la tierra) e con le mesi che si seccavano  e perdevano la loro veste di fiori, e gli uomini che presagivano anche “hambre y guerra”, si diffonde nella primavera del 1648 la comune convinzione che solo una sincera e manifesta forma devozionale, quella della processione, avrebbe potuto riconciliare la misericordia divina.

La letteratura popolare delle nostre genti ci insegna che l’acqua va propiziata con la preghiera, poiché il signore non rimane insensibile tutte le volte che questa richiesta gli vien rivolta con le umili invocazioni del popolo. Nel poemetto del Sortes noi troviamo ribadito che carestia, siccità, peste e guerra hanno una unica matrice: i peccati degli uomini, perché la meteorologia non è mai considerata neppure un fatto di secondaria importanza.

Davanti alla lucida coscienza della imminente carestia, la Verdadera Relación di padre Sortes ha inizio con la mobilitazione del popolo sassarese alle devozioni: con la partecipazione delle Confraternite, del Capitolo, e la visita ai santuari che stanno maggiormente a cuore ai sassaresi, cioè alla Mdonna di Valverde, al Santuario della chiesa del monte, alla Vergine delle Grazie, a sant’Apollinare. E dopo queste devozioni l’acqua cade su Sassari, ma non sufficiente alle esigenze della campagan e degli uomini, e comunque non nella quantità attesa e sperata dal popolo.

E perciò le devozioni vengono rinnovate, portando in processione il venerato simulacro della Madonna di Betlemme. Ma nella misura in cui si comincia a prendere coscienza che nessuna delle immagini, in cui il popolo nutriva maggiore devozione, aveva potuto propiziare la pioggia liberatrice, va sempre più acutizzandosi il senso della sfiducia e della mortificazione. E’ questo il momento in cui, in una processione promossa dai Padri Cappuccini, si intravedono i primi segni di disciplina, unico rimedio ormai “por applacar a Dios alto infinito”, e seguono processioni, che toccano le varie chiese della città e che si protraggono fino a tarda sera, con quei fedeli disfatti dalla stanchezza: lugubri sfilate notturne di gente viva che sembrava fantasmi, invocanti  a gran voce e col pianto la misericordia e la grazia dell’acqua. (…)

Alla fine dell’aprile subentra anche la paura della peste, unita a quella della guerra. Della guerra la Verdadera Relación non fa parola, e se ne parla solo nella misura in cui questa componente si associa alle altre per creare quel generale clima di scoraggiamento e di paura diffusosi nella primavera del 1648.

Il Sortes vuole sottointendere senza dubbio come, a più di un decennio dallo sbarco nellele coste di Oristano delle armate francesi del conte di Harcourt (1637), le popolazioni sarde ancora paventassero nuove  e più terribili invasioni, anche perché il vicerè conte Ximenes continuava  a prendere tutta una serie di provvedimenti, che se da un lato miravano a consolidare le forze navali e militari della Sardegna, dall’altro facevano peggiorare le condizioni agricole, industriali e commerciali dell’isola. E a far quietare gli animi non valse  certo la buona annata di grani del 1645, perché proprio in quell’anno le popolazioni furono sollecitate a concedere al sovrano un donativo, a titolo di prestito, di ben ventimila ducati (Pillito, Memorie, pag. 92).

Nel maggio del 1648 le Confraternite e tutte le associazioni laiche e religiose di Sassari portano in processione il Crocifisso di sant’Apollinare, mentre le folle dei popolani si feriscono per devozione le carni e spargono il sangue nel terreno, sì che le erbe “unas pintadas flores perecian”; altri camminano con due spade in bocca, da indurre a spavento, altri vanno trascinando catene, tavole, croci ed altri supplizi. “Todos fatigados, afligidos, y llenos de agonia…” e tormentando la carne ribelle per avere più sano lo spirito. Questi spettacoli sono ormai quotidiani. E quando cessa per stanchezza la devozione del popolo sono gli ordini religiosi minori che nella notte attraversano le strade diretti verso questa o quella chiesa o santuario di città o di campagna, rinnovando le discipline che sono tanto care al Signore.

In una di queste devozioni un padre Cappuccino annuncia una sera che il popolo non può essere esaudito per l’ingratitudine che mostra nel lasciare scoperchiata la Chiesa del Santo Cristo e perché non dà i necessari mezzi per completare i lavori del tempio. Si fa così chiaro il convincimento che la pioggia non verrà se non saranno ripresi i pellegrinaggi alla basilica di san Gavino per invocare i Santi Martiri. Non è questa di san Gavino una devozione nuova per le popolazioni del Logudoro.

Damiano Filia (La chiesa di Sassari nel secolo XVI, pag.813) ci dice che anche dopo la traslazione della sede vescovile a Sassari, la basilica dei martiri di Torres restava il centro delle solennità religiose di tutti i fedeli della Sardegna del Capo di Sopra, ed erano “le ceneri sacre dei primi cristiani che tenevano desta nelle anime la nostalgia divina”.

Processioni e devozioni attuate con larga partecipazione di popolo (l’ardia trionfale) dopo le quali i vescovi si riunivano “per studiare i nuovi doveri del clero e per provvedere ai bisogni urgenti del popolo” (Filia, id.).

I POVERI E GLI STORPI TRASCINAVANO CATENE

In quella triste primavera sassarese del 1648 si rinnova così la processione al santuario dei martiri, coi bambini vestiti di bianco ma col viso e il capo velati di nero, per essere più graditi a Dio, chiedenti a gran voce il perdono con gemiti e pianti, come fossero essi stessi i peccatori, e dietro di loro i fedeli con la faccia ugualmente velata, trascinanti croci, sassi, grosse tavole, uniti l’un l’altro da catene.

Nei giorni successivi altre processioni, con la Vergine dei servi, le statue di sant’Anna e san Filippo e di notte la processione delle confraternite della Morte con “mucha antorcha y luminaria”, col Crocefisso e il miracoloso simulacro di sant’Antonio da Padova.

Per la seconda volta arriva la pioggia, ma anche questa volta non sufficiente per poter scongiurare siccità, carestia e peste. Al colmo della disperazione viene portata a Sassari la statua di santa Anatolia dalla sua chiesetta di campagna, ed esposta in un tempio della città, per poter essere venerata più agevolmente e frequentemente.

Nella processione propiziata dalla Confraternita di san Carlo (e questa è una delle pagine più suggestive della Verdadera relación) poveri, ciechi, infermi, sciolti od accoppiati, trascinano grosse pietre appese al collo, altri seminudi si percuotono il corpo, altri si trascinano a stento per via dei ceppi che li imprigionano ai piedi. Perché la gente, al massimo dello scoramento, era ormai convinta di essere stata abbandonata da Dio.

E’ il momento della processione a Balai, il fatto culminante del poema, una processione ispirata da Dio attraverso gli uomini della Confraternita della Santa Croce, e che si rinnova con tutte le forme della disciplina e della penitenza: solo così si sarebbe potuta ottenere la misericordia divina,

Per la natura epico-lirica del poemetto del Sortes, e per la sua dipendenza dalle consimili opere letterarie italiane e spagnole la Verdadera relación, vuole anche che Lucifero raduni tutte le schiere dei suoi demoni, perché vadano nel popolo per dissuaderlo dal proposito della penitenza e soprattutto perché la processione non si faccia. Così nelle strade e nelle case di Sassari, negli oratori e nelle sacrestie il maligno va seminando odio e rancore e attizza nuove vendette. Ma non può trionfare, perché la processione si fa e ad essa concorrono le intere classi sociali della città, i nobili, i cavalieri, le dame e le signore, il popolo e il Capitolo, nonché tutti gli ordini religiosi. Ma una volta che nella chiesa di san Gavino si consuma il sacrificio della Comunione, il maligno mette in circolazione la notizia che un bambino è annegato: nuove scene di disperazione  e di panico, con urla e movimenti di folla, perché le madri nella calca non erano in grado di controllare i loro figli. Ma era solo una diabolica notizia, e ancora una volta i devoti si inginocchiano per ringraziare la Vergine, nelle cui mani è stato posto il mazzo delle spighe da offrire al Figlio, perché Questi faccia altrettanto con i suoi figli che con umiltà in quel momento lo invocano.

E’ il giorno dei miracoli: la donna posseduta dal demonio grida a gran voce che sono necessarie altre preghiere; la vedova in lutto si leva sulla folla per dichiarare che perdona l’assassino che l’ha privata del marito; mentre fuori il vento impetuoso allontana dal cielo ogni cirro di nube e il sole getta raggi di fuoco.

Ma nella notte i Cappuccini raggiungono la chiesetta di Balai per sottoporsi a una disciplina ancora più sanguinosa. Il mare in quegli scogli urlava da mettere spavento: “La mar bramia tanto que ponia –temor y espanto à todos los mortales- y fuè tanto el rumor que de el se via- que mostraba de dar tristes señales”.

Un tuono spaventoso annuncia la pioggia: i pellegrini escono dal piccolo tempio, si dirigono verso il mare, tutti attorno al cristo di sant’Apollinare, mentre si scambiano il bacio de perdono.

La carestia, la fame, la sete, la guerra sono ormai scongiurate. Ma nel 1652, cioè a distanza di pochi anni, la peste decimerà le popolazioni di Sassari e di tutta la Sardegna. Interi villaggi verranno distrutti e, attorno a Sassari, Cargegue e Saccargia finiranno quasi per svanire. A Sassari solo cinquemila saranno i superstiti, perché i morti sono più di ventimila (P.Tola).

Nella primavera del 1648 i sassaresi avevano presagito lucidamente i segni dei prossimi lutti.



Pubblicato su La Nuova Sardegna il 16 febbraio 1975


Ritorna alla pagina precedente